Robot umanoidi servono davvero lo abbiamo chiesto al Prof. Andrea Bonarini
Di robot dalla forma “umanoide” ne è piena la letteratura, scientifica e romanzesca. Sono suggestivi e di grande impatto, ma quello che gli studiosi come Andrea Bonarini, professore del Politecnico di Milano, pensano sulla loro utilità è tutt’altro. Ho quindi intervistato il Professore, per capire meglio come si prospetti il futuro della robotica non-umanoide, ma non per questo priva di emozioni “umane”.

La robotica odierna si sta sforzando a riprodurre macchine dalle sembianze sempre più simili a quelle umanoidi. Roberto Cingolani e Giorgio Metta, nel loro libro “Umani e Umanoidi”, hanno addirittura dichiarato di voler riprodurre, un giorno, un cervello robotico dotato di plasticità neuronale, costruendo intelligenze artificiali in grado di apprendere. Ma c’è chi non è d’accordo con l’idea di “umanizzare” i robot, nonostante lo sforzo di far loro riprodurre delle emozioni prettamente umane.
Conosco il Prof. Andrea Bonarini durante il Meet me Tonight, ovvero la Notte dei Ricercatori che si è svolta a Milano e in tutta Italia nei giorni 25 e 26 Settembre. Davanti al loro stand si aggiravano piccoli robot su ruote che venivano mossi dai ricercatori e dal pubblico curioso. Al suo interno, mi attira subito una sorta di “testa” robotica con indosso una “parrucca” rosa, che mi segue con lo sguardo mentre cammino. Il professore, prontamente, mi spiega che si tratta di un robot per l’accoglienza clienti, che registra le persone entranti in una stanza e le avvisa se l’entrata è aperta o chiusa. Ma è ancora troppo umanoide per i nostri gusti, mi spiega Andrea Bonarini. Dopo un’amabile chiacchierata sul panorama odierno della robotica, decidiamo di rivederci per un’intervista via Skype/Hangouts/qualcosa per approfondire quest’aspetto.

Secondo Andrea Bonarini, la robotica futura non deve tentare di riprodurre l’essere umano in tutte le sue caratteristiche fisiche. Mi spiega che, al giorno d’oggi, esistono due filoni di ricerca robotica che viaggiano parallelamente: uno che cerca di costruire veri e propri androidi umanoidi, che lavorino al posto degli umani in ruoli sociali (receptionist, operatori sanitari, badanti, ma anche “actroid”, i robot attori), un altro che costruisce robot che aiutino l’uomo senza per forza somigliare a loro, permettendo un’interazione asimmetrica e non illusoriamente paritaria.
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Andrea Bonarini al Meet Me Tonight
Perché impegnarsi a non riprodurre un robot dalle sembianze umane?
Andrea Bonarini sostiene che l’uomo non si faccia facilmente ingannare dall’apparenza umanoide di un robot. Un po’ per l’aspetto, per quanto sempre più simile all’essere umano, un po’ per le azioni che, seppur sofisticatissime, non sono ancora comparabili alla velocità e alla fluidità di una persona in carne e ossa, l’uomo a contatto con l’androide percepirebbe un senso di “fastidio” e d’intolleranza verso di esso, provocando una mancanza di fiducia che renderebbe problematica una loro cooperazione. Si veda il Leonardo da Vinci, un androide costruito con dovizia di particolari da Minoru Asada e il suo team dell’Università di Osaka: una tecnologia avanzatissima e un gran bell’effetto scenografico, ma del tutto incapace di superare il suo ruolo di mero intrattenimento per svolgere qualcosa di utile all’uomo, che sia anche solo reggere un oggetto con le mani o alzarsi in piedi e camminare.
La cosa importante, nella costruzione di robot, e cercare di costruire ciò che serve davvero all’uomo: se il robot avesse bisogno di un solo braccio, non ha senso costruirgliene due.

Un esempio interessante è un progetto che è stato creato presso il Politecnico di Milano dal professore e il suo team: Krog (acronimo di Kinect-Robot Interaction for Gaming), un robot a forma di “palla”, che si presenta come un morbido pupazzo capace di muoversi, parlare, illuminarsi e vibrare. Krog viene utilizzato nella educazione psicomotoria dei bambini affetti da autismo. In questo caso – spiega il Prof. Bonarini – un robot umanoide con gambe e braccia, ma fatto di un materiale rigido e da componenti che lo rendono lento e instabile (reggendosi solo su due “arti”), sarebbe stato controproducente. Ecco un caso in cui occorre slegarsi dall’idea di creare un “umanoide ad ogni costo” per costruire qualcosa di davvero utile per l’utente.
Non imitare gli umani, tuttavia, non significa rinunciare alle capacità sociali che i robot possono avere.
Infatti, il Professore punta a un obiettivo molto ambizioso all’interno della robotica: riprodurre le emozioni umane attraverso i robot non-umanoidi.
Non è certo cosa semplice. L’emozione, nell’uomo, si manifesta con una sfaccettata gamma di caratteristiche interne (cambiamenti fisiologici, ad esempio la sudorazione fredda nella paura) ed esterne (mimica facciale, prossemica, gestualità). Completa l’espressione emotiva la verbalizzazione: non solo l’uso di specifiche parole, ma anche il semplice tono della voce più alto o più basso ci permette di capire quale emozione stia provando il nostro interlocutore.

Come produrre dei robot emotivi senza che abbiano, per esempio, alcuna mimica facciale? L’espressione emotiva, secondo gli studiosi del team del Prof. Bonarini, può essere riprodotta con il movimento della macchina, corredata magari da specifici suoni e luci che attirino l’attenzione dell’utente.
Julian Mauricio Angel, dottorando del Politecnico di Milano e anch’egli presente al Meet Me Tonight, sta infatti lavorando a un progetto che segue questa logica: un robot capace di esprimere emotività attraverso il solo movimento su ruote. Un domani – mi spiega Andrea Bonarini – potremmo avere un’aspirapolvere che si mostra “felice” quando ha finito di pulire, o un frigorifero che si mostra “triste” quando il cibo comincia a scarseggiare. Potremmo avere un’interazione con ciascuno degli oggetti presenti nelle nostre case.
Ecco il risultato del progetto di Julian Mauricio Angel: rendere emotivo un robot attraverso il movimento!
L’emotività, però, non deve essere scambiata per sentimento.
Non si diventa “amico” dell’aspirapolvere solo perché, muovendosi, mostra di svolgere un’azione emotiva. Le emozioni, tuttavia, sono il centro della nostra interazione. Citando il primo assioma della comunicazione della scuola di Palo Alto, “non si può non comunicare“: gestualità, mimica facciale, posizione del corpo, inflessione della voce, ma anche i silenzi comunicano qualcosa al nostro interlocutore, spesso prevalendo su quanto viene espresso verbalmente. Seguendo questa linea, i robot di oggi comunicano con metodologie classiche (solitamente si limitano a parlare o a esprimere per iscritto ciò che vogliono dire, alcuni iniziano ad accompagnare al linguaggio verbale qualche gesto o qualche accenno di mimica facciale), mentre coloro che, come Andrea Bonarini e Julian Mauricio Angel, credono che la comunicazione possa essere efficace anche senza dare al robot una sembianza umana, preferiscono utilizzare il linguaggio non verbale per esprimere un concetto che venga recepito dall’uomo prima del linguaggio verbale stesso, in quanto il primo predomina sul secondo.
Un domani potremo interagire attivamente con tutti gli oggetti della nostra casa, divenuta finalmente Smart House.
L’uomo del futuro descritto da Andrea Bonarini è quello di un uomo collegato con gli oggetti attorno a lui, che diventano a pieno regime strumenti efficienti per facilitargli la vita quotidiana molto più di quello che possono fare oggi. Come sta avvenendo con il cellulare, oramai prolungamento della nostra mano, e come avverrà con i wareable al di fuori delle nostre case. È un futuro in cui anche anziani e disabili possono avere le stesse possibilità delle persone in salute nelle loro dimore e anche al di fuori di esse, grazie all’Internet of Things (IoT), ormai sempre più noto come Internet of Everything (IoE), perché coinvolgerà davvero tutti gli aspetti della nostra quotidianità. Un futuro in cui, nonostante l’importanza che gli oggetti rivestiranno nelle nostre vite (un processo che definisco “Oggettivizzazione dell’uomo“), le emozioni rimarranno una chiave di lettura necessaria per non interferire in quelle azioni che, giorno per giorno, possiamo dedicarci soltanto noi esseri umani.
L’oggetto che fa il lavoro al nostro posto (per esempio una lavastoviglie) non è un sostituto dell’uomo, ma uno strumento come può esserlo la spugna per lavare i piatti a mano.
L’Oggettivizzazione dell’uomo
L’Uomo Oggettivizzato è colui che ormai utilizza sempre meno direttamente il proprio corpo per raggiungere i suoi scopi, sostituito da oggetti sempre più sofisticati e in grado di interagire con lui. L’utilizzo indiretto del suo corpo, che manovra più macchine in contemporanea, permette all’uomo di utilizzare nuove risorse che non possono essere riprodotte artificialmente, per quanto permanga il filone di studio volto alla costruzione di androidi umanoidi.
Molte di queste risorse rimangono spesso assopite dalle energie che le normali attività fisiche ci tolgono. Per esempio, un amante della lettura non può leggere mentre cammina: se prende l’autobus avrà più possibilità di farlo, e le nuove tecnologie (smartphone, tablet, computer portatili) permettono di rendere la lettura più collegata al contesto, grazie all’ipertesto, ai collegamenti in rete e alla possibilità di eseguire più azioni nello stesso tempo (per esempio, leggere un quotidiano, verificarne immediatamente le fonti e, nel mentre, cercare il significato di un certo termine sul dizionario). Oltre all’aumento delle nostre conoscenze (o, almeno, delle informazioni che ci raggiungono), si potrà sfruttare maggiormente la nostra creatività (se ami disegnare, ti stupirai di quanto tempo puoi risparmiare usando programmi di fotoritocco), socialità (con il cellulare posso contattare i miei amici, anche condividendo informazioni sui social), e sviluppare un’attenzione potenziata e una capacità di multitasking elevatissima, il tutto garantito da una velocità senza eguali nel passato.
Perdere il contatto con il proprio corpo, per potersi librare in volo col pensiero.

I robot, così come le altre tecnologie, ci potranno anche intrattenere, attraverso giochi come Spykee, il robotWII che utilizza la tecnologia del Nintendo WII per interagire con l’utente, educare, quando lo stesso robot viene utilizzato con soggetti autistici, divertire, come il camice wareable interattivo che permette al pediatra di allietare la degenza dei suoi piccoli ospiti e farci interagire attraverso i social, utilizzando il braccialetto wareable che misura le basi fisiologiche delle proprie emozioni e permette di pubblicarle sui social network.

Queste e altre tecnologie, ideate dal Andrea Bonarini e il suo team all’interno del Politecnico di Milano, contribuiranno allo sviluppo dell’Uomo Oggettivato, la cui trasformazione è già in atto in questi anni, interagendo con lui sul piano fisico e, soprattutto, emotivo. Per farlo, sottolinea il professore, un grande contributo è stato dato dalla collaborazione del loro laboratorio di robotica con quello di design del Politecnico di Milano, riuscendo a unire due discipline distanti, che spesso non comunicano tra loro, per uno scopo comune. Come già spiegato nel mio Manifesto, la Multidisciplinarità permette alla ricerca di evolvere e creare soluzioni innovative che, singolarmente, non sarebbe mai stato possibile generare.
Tutto questo senza “ingannare” l’utente con una fittizia estetica umanoide, e permettendo all’oggetto di legarsi a lui in un rapporto di fiducia e utilità.
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