#Sorrisiall’Orizzonte: Jamal – “Il coraggio di ricostruire”

Sono Jamal e vengo da un paese della Siria.

Il mio paese da anni è dilaniato dalla guerra; tutto è iniziato con delle manifestazioni popolari, che chiedevano una maggiore apertura verso le libertàà individuali di noi cittadini. L’opposizione del governo siriano, a queste richieste, portò i manifestanti a chiedere la caduta del regime; le forze governative risposero alle manifestazioni con una violenta repressione. Ecco come cadde il regime e come, poi, scoppiò il caos.Ho visto morire sotto i miei occhi tanti parenti ed amici; la situazione era devastante, le poche case rimaste in piedi erano fatiscenti, tutte le risorse necessarie per sopravvivere scarseggiavano. Non potevo andare a lavoro per paura di lasciare mia moglie Sayra da sola con i nostri quattro bambini, troppi bombardamenti ogni giorno dilaniavano il nostro paese.

Prima della guerra possedevo un’impresa di automezzi, poi ho perso tutto: l’impresa, la casa, i soldi e la dignità. Sono finito nelle carceri del regime, perchéé soccorrevo i feriti ed aiutavo chi era più in difficoltà. Ho anche delle cicatrici delle torture subìte. Sono stato torturato per due mesi, mi strappavano le unghie e mi spegnevano le sigarette sulla schiena. Volevano ottenere informazioni sui ribelli ma io aiutavo altri civili, vittime come me di questa guerra assurda. Sono riuscito a scappare dal carcere e raggiungere mia moglie che intanto, insieme ad altre famiglie, stava progettando di andare in Libano.

Arrivati, dopo giorni e notti accampati in strada con qualche pezzo di pane come cibo, ci siamo ritrovati tra le distese di piantagioni e frutteti dove sorgevano tante tende. Li chiamavano accampamenti di tende, ma si trattava di rifugi costruiti con liste di compensato e teli. I tessuti decoravano le pareti, per terra non mancavano tappeti e cuscini. Bisognava togliersi le scarpe per entrare. L’ordine quasi stonava, nella cucina piatti e pentole erano puliti e sistematicamente ordinati. Un ordine appariscente nelle nostre vite disordinate. Molti curavano il proprio rifugio come se fosse una vera casa perchéé non si sapeva quando si poteva lasciare il Libano.

La situazione di noi siriani è molto complessa: il Libano, non avendo firmato la convenzione di Ginevra, non riconosce lo status di rifugiato e da quando è iniziata la crisi siriana non ha permesso la costruzione di campi profughi strutturati. Noi siriani scappati dalla guerra abbiamo due possibilità: se possiamo permettercelo affittiamo un appartamento nei villaggi o nelle periferie delle città, altrimenti come è capitato a me, ci raggruppiamo in accampamenti di tende informali. Niente però è gratuito. Anche qui dobbiamo pagare l’affitto ai proprietari terrieri. Molti di noi non hanno soldi, ma non possono nemmeno lavorare perché il governo libanese glielo impedisce, a meno che non si abbia un permesso. Averlo è difficile e costa troppo, per cui, dopo la scadenza è quasi improbabile il suo rinnovo e così gli uomini stanno nei campi profughi per paura di essere arrestati, mentre le donne con i bambini, che passano più inosservati, cercano di provvedere alla famiglia.

Le madri lavorano due o tre mesi l’anno, i bambini vanno a scuola e poi lavorano insieme alle donne. I soldi che guadagnano bastano solo per sopravvivere e la scuola è l’ultimo dei loro problemi, spesso i ragazzi abbandonano la scuola per poter lavorare più ore. Il rischio di violenza o sfruttamento delle donne è un’altra nostra paura, spesso sono sottoposte allo “shawish”, il “capo” dell’accampamento, che contratta per loro i lavori e spesso trattiene parte dei loro soldi.

Inoltre vivere con il coprifuoco serale, voluto dalla municipalità, ci richiamava l’angoscia dei bombardamenti e delle incursioni violente vissute nel nostro paese, lì si poteva uscire solo per le emergenze o per andare nella clinica del paese più vicino. Tornare in Siria è rischioso, ma è la scelta obbligata di quelle famiglie che non riescono ad uscire dal Libano.

Ma torniamo a noi: dopo aver passato due anni in Libano, tramite un amico conosciuto nel campo profughi, vengo a conoscenza dei cosiddetti “Corridoi Umanitari” (un progetto pilota portato avanti dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), dalla Tavola valdese, dalla Comunità di Sant’Egidio, nell’ambito di un Protocollo d’intesa concordato con i Ministeri dell’Interno e degli Affari Esteri). Io e la mia famiglia, insieme ad altre famiglie, siamo state inserite nella lista degli aventi diritto e da quel momento i volontari si sono presi cura di noi. Dopo aver preparato tutti i documenti siamo partiti, dall’aeroporto di Beirut e siamo atterrati all’aeroporto di Roma Fiumicino.

Appena arrivati abbiamo trovato tante persone pronte ad accoglierci e tutto era addobbato in tema natalizio, era il 27 Dicembre 2016 ed i nostri cuori hanno iniziato a sorridere. I miei bimbi erano felicissimi perchè alcune volontarie avevano portato dei giocattoli. Vedevo i loro visi allegri mentre stringevano tra le braccia delle bamboline e giocavano con delle macchinine. Finalmente eravamo felici anche io e mia moglie.

Dopo pochi giorni siamo stati trasferiti in Calabria in uno centro SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) in un paesino di collina, non distante dal mare. Qui c’erano altre famiglie siriane come noi. Gli operatori dello Sprar erano sempre gentili e accoglienti e qui abbiamo potuto seguire dei corsi di italiano; inoltre mia moglie ha frequentato anche un corso di cucito, io mi sono dato da fare per aiutare gli operatori in lavoretti di manutenzione del centro.

In alcuni momenti la tristezza di aver lasciato il nostro paese prendeva il sopravvento, guardavamo il mare dalla finestra della nostra stanza con grande malinconia, immaginando che non lontano da lì la guerra stava distruggendo tutto. Le cicatrici delle torture, ci ricordava il dolore subito e quello che ancora coinvolgeva i nostri connazionali.

Nei mesi successivi, con l’aiuto degli operatori ho iniziato a lavorare presso un’impresa, come meccanico. Insomma stavamo risalendo la china, forse potevamo riprogettare il nostro futuro. Ero molto felice di questa cosa perché con i primi soldi ho potuto trovare un casa piccolina dove poter andare a vivere con la mia famiglia.

Oggi, lavoro da un anno in questa impresa ed il mio datore di lavoro è molto contento di me. Mia moglie Sayra aiuta una signora sarta nel suo laboratorio. I nostri bambini frequentano la scuola del paese e hanno tanti amici con cui giocare e fare insieme i compiti di scuola.

Siamo sempre grati ai volontari che ci hanno aiutato ad arrivare in Italia e all’equipe del centro che è riuscita a farci sentire a casa e a farci integrare nel territorio. La nostra dilaniata Siria è sempre nel nostro cuore, ma l’Italia è diventata la nostra nuova casa dove poter costruire un futuro sereno.

 

A cura di Elisa Servello

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