#Sorrisiall’Orizzonte: la storia di Alban, Prometeo incatenato
Mi chiamo Alban, sono un ragazzo nigeriano di 26 anni e appartengo al popolo Yoruba. In Nigeria ho vissuto in un villaggio distante dalle città, ho potuto frequentare una piccola scuola fino a 14 anni e nel contempo lavoravo per aiutare la mia famiglia, perché mio padre aveva problemi di salute. Mia madre provvedeva alle cure di mio padre e dei miei fratelli. In Nigeria, ho lasciato anche la mia compagna, sposata secondo rito tradizionale, che un giorno mi raggiungerà e costruiremo la nostra famiglia qui. La mia vita, prima di perdere mio padre all’età di 19 anni, è stata serena.
Sono stato coinvolto in un’imboscata dove hanno ucciso mia madre, dopo averla violentata davanti ai miei occhi. Dalla grande paura e disperazione ho vagato nella boscaglia per tutta notte per poi ritornare a casa e tentare di ricostruire la mia vita ed aiutare i miei fratelli. A 22 anni mi sono sposato, ma una nuova ondata di incursioni violente nei pressi del mio villaggio, mi ha spinto ad affidare mia moglie ai suoi genitori in quanto vivevano in un territorio più tranquillo, a loro ho affidato anche i miei fratelli minori e così poi ho deciso di partire.
La mia idea iniziale era di raggiungere mio fratello maggiore in Libia, cercare lavoro per mandare qualche soldo guadagnato alla mia famiglia rimasta in Nigeria. La speranza era di poter ricongiungerci prima possibile in un altro paese e poter ricostruire una vita futura. Dopo aver attraversato clandestinamente il Niger, sono arrivato in Libia. Ho iniziato a lavorare in un’impresa edile, ma dopo diversi mesi mi hanno arrestato perché ho protestato contro il datore di lavoro a cui chiedevo il compenso dovuto. Dopo circa un mese sono riuscito a scappare con l’aiuto di un compagno, che mi ha convinto ad imbarcarmi per l’Europa. Egli stesso mi ha prestato dei soldi da dare ai trafficanti per pagare il viaggio in mare. Questa decisione non era programmata. Avevo sentito parlare dell’Europa, dell’Italia, ma l’Africa era la mia terra e lì viveva mia moglie. Tuttavia, ormai, l’unica cosa che potevo fare, era andare avanti, forse, sarebbe stato più facile di tornare indietro.
La mia storia può essere uguale a quella di molti altri. Mi sono imbarcato su un gommone gremito di gente con il rischio di capovolgersi in acqua quando alcuni di loro litigavano per il pane distribuito. Dopo tre giorni siamo stati intercettati dalle navi di pattuglia del mediterraneo e fatti salire su una nave norvegese che ci ha sbarcarti ad Augusta. Sono stato traferito in un Centro Accoglienza, in seguito, in Calabria in un paesino in alta collina, non molto distante dal mare, dove tuttavia, abitavano poco più di un centinaio di persone.
Nel Centro Accoglienza frequentavo le lezioni di italiano e partecipavo ai laboratori. In struttura ero molto solitario, poco socievole e un pò timido. Sono riuscito ad apprendere in poco tempo la lingua italiana; in paese, invece, riuscivo a socializzare, a stringere amicizia, a rivolgermi autonomamente ai servizi presenti sul territorio. Il mio umore altalenante mi faceva provare dei dolori addominali, che in alcuni momenti non mi permettevano di far nulla. Avevo difficoltà ad alzarmi dal letto e le medicine date dal medico non mi aiutavano. In primavera avevo delle allergie, e prima di arrivare in Italia non ne soffrivo; solo con gli antistaminici riuscivo a dormire. Le mie giornate le passavo solo dormendo e mangiando sempre meno. Mi sentivo molto male, tanto che iniziavo a chiudermi in me stesso sempre più, da non frequentare neanche più le lezioni di italiano.
Nel centro mi hanno consigliato di intraprendere un percorso di sostegno psicologico, ma ho avuto all’inizio molte resistenze e con il prosieguo delle risposte diagnostiche mediche negative, sono diventato più chiuso. La notifica del diniego e il persistente malessere fisico, mi hanno fatto cadere in un baratro, nello SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) sono diventato più diffidente e scontroso nei confronti dell’equipe: non volevo parlare con nessuno e mi sono allontanato anche dai miei connazionali. Nel corso dei colloqui con la psicologa del centro, io inizialmente, non riuscivo a verbalizzare il mio star male.
Dopo tante indagini e cure fallimentari, sono riuscito ad aprirmi. Il mio timore più grande era legato alle condizioni di salute di mia moglie, oltreché alla costante preoccupazione legata al mio status. In Nigeria mia moglie non poteva avere dei figli in quanto l’anziano del mio paese, aveva posto sull’altare un nodo (ritualità culturale-etnica) che ci avrebbe impedito di avere figli finché io non avessi trovato la strada giusta per la mia famiglia. Ciò faceva riferimento al rito vudù che mi aveva coinvolto prima di lasciare la Nigeria. Mi sentivo bloccato, immobile, con tanta nostalgia, sentimenti di vuoto e malessere. Mi sentivo abbandonato perché nessuno, neanche l’equipe del centro, poteva capire la mia situazione e “il compito” che l’anziano del mio paese mi aveva assegnato al momento della partenza. La mia posizione legale in quel momento in Italia, caratterizzata dal diniego, aggravava tutto questo.
Lentamente, dopo che l’equipe del Centro di Accoglienza riuscì a capire la mia situazione, riguardante “la ritualità vudù”, e dopo aver condiviso con me le difficoltà che non mi permettevano di essere un buon marito e fratello, sono riuscito ad affidarmi e a fidarmi.
Ho cominciato così a conoscere meglio le mie emozioni ed a riuscire ad esprimerle. Sono riuscito ad essere più presente alle lezioni di italiano, tanto da esprimere la volontà di proseguire la formazione. E’ stato un periodo di grande impegno e studio, sono riuscito a prendere la patente di guida ed ho iniziato a ricercare opportunità di lavoro. Da lì ho potuto inviare i primi soldi alla mia famiglia e con la rinascita della mia interiorità, mi sono occupato di risolvere con determinazione, le problematiche di salute di mia moglie. Stavo assolvendo così al “compito” assegnatomi, per cui anche mia moglie poteva incamminarsi verso indagini mediche appropriate, eravamo prossimi allo “scioglimento del nodo posto sull’altare”. Nel contempo, finalmente mi era arrivato il responso positivo del ricorso al diniego.
Ero riuscito ad acquisire lo status di rifugiato e un contratto di lavoro come elettricista. Grazie all’aiuto del Centro di Accoglienza, ho potuto avere l’opportunità di prendere in affitto una piccola dimora vicina, in cui poter vivere insieme a mia moglie.
Oggi sono autonomo, propenso a costruire il mio futuro in un territorio che ha saputo accogliermi e sostenermi nelle mie difficoltà, seppur i ricordi sono ancora vivi. I ricordi ricompaiono nel sonno e mi lasciano sveglio, ma col passare del tempo questi incubi sono sempre meno presenti. Ora qui con mia moglie costruiremo la nostra famiglia, coccolati dal paese che anni fa mi ha accolto e verso il quale nutrirò sempre una grande riconoscenza.
A cura di Elisa Servello
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