#EmozionArte: resistenza e libertà, i versi “dissidenti” di Faraj Bayrakdar
Nel mio articolo di aprile vi avevo parlato dei vari effetti benefici correlati all’atto della scrittura, ed in particolare del senso di “riappropriazione” dell’esistenza che ci accompagna ogni volta che scriviamo qualcosa.
Ebbene, nulla di più vero come nel caso della poesia, la forma di scrittura più libera per eccellenza. Tanto più, se essa diventa la sola compagna di cella di un poeta incarcerato in condizioni di totale isolamento.
Lo sa bene Faraj Bayrakdar, classe 1951, intellettuale siriano ripetutamente arrestato e detenuto dal regime di Hassad padre a partire dal 1987 per aver fondato una rivista culturale assieme ad altri studenti dell’Università di Damasco.
Nonostante le privazioni e le torture abbiano indebolito il suo corpo, lo spirito di Faraj non si è lasciato spezzare: in carcere ha composto ben sette antologie di poesia. I suoi versi sono stati la sua salvezza:
«Lì c’era un tentativo continuo di cancellare il tuo significato come essere umano, e creare versi o fare sculture con pezzetti di legno raccattati nella cella erano dei modi per dare un senso alla nostra esistenza» ha dichiarato in un’intervista.
A fronte di pressioni internazionali crescenti, è finalmente stato liberato nel 2000, e dal 2005 vive in Svezia. Vincitore di numerosi premi (il Prix Hellman-Hammett nel 1998, il PEN Freedom-to-Write Award nel 1999 e il Free World Award nel 2004), ha raccontato il suo calvario nella raccolta poetica Il Luogo stretto (trad. Elena Chiti, Nottetempo, Milano 2016) a cui è seguito Specchi dell’assenza, di cui forniamo uno spezzone in appendice a questo articolo.
Per chi fosse interessato a conoscere dal vivo la sua storia di uomo e di poeta, segnalo che Faraj Bayrakdar sarà presente il 10 giugno alla libreria Gogol di Milano in via Savona 101, in compagnia di Francesca del Vecchio e Elisabetta Bucciarelli. Un’occasione fertile per riflettere sul potere dell’arte come forma di resistenza, e soprattutto come baluardo della dignità umana.
«Ma le circostanze
erano di pietra
e il tintinnio del tempo e del luogo
aveva una macchia che somiglia a sangue»
(da Faraj Bayrakdar, Specchi dell’assenza, trad. e cura E. Chiti, Interlinea, pp. 120)
Francesco Valente
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